RITORNO A CASA CON L’EMDR DOPO IL RAPIMENTO NEL SUD DELL’ALGERIA

Da un’intervista con Maria Sandra Mariani di Cecilia Zaccagnini

Quanto segue mi è stato raccontato da Mariasandra Mariani, rapita da Al Queida e tornata a casa dopo 14 mesi di prigionia nel deserto algerino. Le sue parole ancora incerte, il suo corpo consumato dal lungo periodo di prigionia, il suo sguardo timido e fuggente provato dai mesi di isolamento mi hanno comunicato quanto, qui di seguito, ho provato a mettere per iscritto:

Non penso si possa capire la mia esperienza di rapimento, lo specifico trauma che esso ha creato in me e di conseguenza l’aiuto che ho ricevuto e sto ricevendo dall’EMDR, se prima non racconto brevemente alcuni elementi salienti in tal senso: primo fra tutti cosa ha significato per me l’incontro col deserto qualche anno prima e cosa, quindi, ha voluto dire essere rapita proprio in quel luogo e non in un altro.

Quando, ancora sposata, andai in viaggio per la prima volta nel deserto fui quasi sconvolta dal senso di vastità, dal senso del “nulla” intorno a me e dal mistero intenso di quel “nulla”. Ricordo perfettamente la sensazione di benessere del momento in cui, di fronte a quella per me nuova realtà, ho percepito che il velo, che Nino a quel momento aveva avvolto i miei occhi e la mia vita, si squarciava e ho avuto la sensazione abbagliante della luce che tornava. D’altra parte ho ancora vivide le domande che mi hanno improvvisamente e ineluttabilmente affollato allora la mente: “e io? Nella mia vita? Qual è il mio obiettivo? Cosa ho fatto fino ad ora? Ho solo seguito una strada per inerzia, quella che gli altri si sono aspettati da me. Ma per me cosa ho fatto? ”.

Nel deserto riuscivo a percepire l’essenzialità della vita e insieme nasceva in me un sentimento completamente nuovo e sconosciuto fino ad allora: il senso di libertà in termini di movimento e di testa. Vissuta Nin da bambina in uno stato di “impedimento” e di oppressione, per la prima volta sentivo in quella dimensione la libertà di poter essere semplicemente quella che sono.

I  ritorni  a  casa  erano  difficili:  nessuno  voleva  condividere  questa  per  me enorme scoperta. Quello che per me era il primo e importante contatto con la libertà di essere, gli altri lo chiamavano uno svago, una vacanza, un hobby, una malattia, quasi mi avessero fatto una magia nera.

Il mio cominciare timidamente a rivendicare la possibilità di essere me stessa, dunque, senz’altro non viene condiviso e tanto meno appoggiato.

Il mio primo affaccio a una sensazione di vita piena viene subito colpevolizzato e ciò accresce il senso di colpa e la forte solitudine interna che fin da piccola mi porto dentro.

Sottolineo questi due sentimenti perché senso di colpa e solitudine (non più solo interna) saranno i miei principali compagni nel corso di tutto il mio rapimento.

Quel rapimento ha infatti finito per rappresentare la materializzazione delle paure e del senso di colpa che mi hanno sempre accompagnato. Come se in un gioco perverso del destino la prima vera scelta della mia vita mi avesse condotta direttamente alla realizzazione dei miei incubi peggiori: la solitudine, la non considerazione come donna e come persona, il contatto umano negato e poi il terrore di certi animali, di certe situazioni. Questo di nuovo non faceva che dimostrare ai miei occhi la mia impossibilità di scegliere nella vita.

Da subito, infatti, appena rapita, incontro l’incubo che mi perseguiterà per tutta la mia prigionia: l’isolamento.

I miei rapitori mi negavano qualunque genere di contatto umano, non mi parlavano, non mi guardavano neppure negli occhi. Per loro ero un essere schifoso, da tenere a distanza, in quanto donna e non musulmana. Ero proprio tenuta lontana da loro fisicamente.

Io non mi ero mai sentita molto femminile e neppure tanto considerata nella mia vita come donna e come persona, ma ora questa sensazione si era trasformata in una realtà inimmaginata: ero diventata niente. A loro di me non importava nulla, neppure a livello umano, neppure come ostaggio. Se vivevo o morivo dipendeva unicamente dalla volontà di Allah, dal destino. Non dipendeva da loro. E io non mi potevo, pertanto, appellare a niente fame, sete, caldo…mi rispondevano che non era in loro potere niente…se il destino avesse voluto farmi vivere così sarebbe stato altrimenti sarei morta.

Non  ero  neppure  incatenata  o  tenuta  prigioniera  fisicamente,  del  resto  era sufficiente  lasciarmi  sola  e  scalza  con  un  unico  guardiano:  il  deserto.    Mi ritrovavo terrorizzata dal caldo, dagli animali, dalla sete, dalla morte, che una volta ho più che sfiorato.

Del resto tutto era veramente precario. Sono passata da più di un gruppo di guardiani. Qualcuno era dispettoso, se chiedevo l’acqua mi veniva portata dopo ore. Ogni volta cambiava il luogo di prigionia e non sempre erano pronti nel farmi un giaciglio per la notte. Una volta mi hanno fatto stare tre giorni tra scorpioni e serpenti prima di farmi una tana. Proprio a me, che sono sempre stata terrorizzata da certi animali: da piccola avevo perfino paura di andare al bagno al buio di notte per l’idea irrazionale che ci fossero dei serpenti sul pavimento.

In tutto ciò quello che veramente era insopportabile, però, era che ero sola con quel terrore e sola davvero questa volta anche materialmente, fisicamente e non più solo interiormente.

“Se tu non stai da sola e soffri non imparerai mai”, mi aveva detto mio marito lasciandomi. Bene, in quel momento io ero sola e stavo soffrendo, ma cosa dovevo imparare?

Ma l’unica risposta che trovavo a tutto ciò era un sentimento di colpa. E anche questa  volta  si trattava  di  un  sentimento  conosciuto,  ma  amplificato  e materialmente realizzato. Se ero lì era colpa mia. Avevo addirittura lottato per essere lì. Avevo scelto forse una sola cosa veramente nella vita, il deserto, e il risultato erano stati mesi di incubo. La libertà di essere, di scegliere era stata una colpa che ora stavo pagando a caro prezzo. 14 mesi, infatti, sono un tempo lunghissimo se la tua giornata è fatta di sola e pura attesa: il tempo non passava mai. Io, ingannando la mente, facevo tutto con estrema calma e dopo ogni azione mi chiedevo “quanto sarà passato?”. Quasi un comportamento ossessivo. Mi davo una cadenza e cercavo di non lasciarmi andare.

Questo rapimento mi ha lasciato tracce pesanti.

L’impatto con il mondo al mio ritorno è stato altrettanto duro. In primis mi sono ritrovata a fare i conti con un mondo molto cambiato: la morte di Bin Laden e di Gheddafi nel 2011 avevano sconvolto il mondo arabo. Non solo, ritrovavo un’Italia in una profonda crisi politica, sociale e lavorativa. Ma a parte questo, che già non era poco, mi ritrovavo a fare i conti con una Mariasandra diversa.

Questa   esperienza   mi   ha   portato   difficoltà   di   memoria   e   senso   di affaticamento che mi impediscono di svolgere un lavoro agevolmente. Appena tornata l’ho realizzato. Ed è a questo punto che mi sono sentita abbandonata.

Il primo ringraziamento è per l’Associazione EMDR Italia. che mi ha dato un aiuto concreto per reinserirmi, per tornare ad una vita normale, che mi ha aiutato come persona. Per me questo è un punto importante. Perché trauma nel trauma, quando sono rientrata ho dovuto scoprire, di essere fortemente penalizzata dal fatto che ero stata rapita da turista e non da volontaria o sul luogo di lavoro: quindi nessuno si sentiva in dovere di aiutarmi a rientrare nel mondo  Eppure ero stata rapita in quanto occidentale, in quanto Kafirun, cioè “non di fede musulmana”, per i miei rapitori non faceva differenza se ero lavoratrice e turista, ciò che contava era che fossi italiana. Non voglio essere ingrata, so quanto la Farnesina, e, in particolare, l’Unità di Crisi ha fatto per farmi rientrare viva. Ma, al mio ritorno, io mi sono sentita una persona invalidata senza diritto a una pensione di invalidità.

Il primo insindacabile risultato ottenuto con l’EMDR è testimoniato dallo  stesso racconto che vi sto facendo, un racconto che appena tornata non sarei stata in grado di fare proprio per incapacità a riordinare e ricordare le diverse tappe di quell’esperienza. Ma in particolare non sarei mai riuscita  ad  inquadrare l’esperienza dei 14 mesi di rapimento nel quadro generale della    mia vita.

L’EMDR mi ha permesso di rivivere l’esperienza come se fossi lì, permettendomi di riappropriarmi di tutte le emozioni ad esso collegate perché mi ha guidato a farlo in una situazione protetta, in cui mi sono potuta permettere di ricreare il collegamento tra vissuto ed emozione che la mia mente aveva “protettivamente” interrotto. Quando ero nel deserto, io non volevo sentire. Non volevo pensare. Era troppo doloroso. Quando un ricordo della mia vita in Italia si affacciava, io lo scacciavo. Non potevo sentire le emozioni che avrebbe mosso. E, allora, fermavo tutto. Questo l’avevo fatto per 14 mesi e avrei continuato a farlo una volta tornata perché, ormai, avevo imparato quello. Ritrovando le mie emozioni, attraverso l’EMDR, sto piano piano riaffermando che sono qui.

Ma, soprattutto, l’EMDR mi sta aiutando a sistemare il mio senso di colpa. Non solo in relazione al rapimento. Anzi forse, Ninalmente, la rielaborazione e lo scioglimento del senso di colpa violento, provato nel corso della prigionia, mi ha permesso di affrontare il senso di colpa della mia vita.

L’EMDR mi ha fatto capire questo: non sono malata perché amo il deserto, né quest’amore ha causato il mio rapimento. Infatti, il fatto di non poterci tornare mi manca tutt’oggi. Non è sbagliato che sia stata salvata, che ora abbia una vita da vivere. Quel rapimento non è stata una mia colpa, ma un evento della mia vita.

I miei rapitori non mi parlavano, non mi guardavano mai. Solo uno di loro, come ho accennato prima, mi ha rivolto la parola qualche volta. Una volta mi disse: vedrai, un giorno potrai utilizzare questa esperienza. Mi sembrò folle.

Eppure la mia esperienza con l’EMDR mi ha portato a volte a ripensare a quelle parole e comincio, ora, a vederne il senso. Quando sono stata rapita avevo pensato che ancora una volta la vita aveva detto no al mio tentativo di riscatto. Ora sto cominciando a pensare che, forse, proprio grazie a questo evento tremendo della mia vita posso mettere a posto il profondo senso di non diritto e di colpa che mi ero sempre portata dentro. Questo lo devo all’EMDR.