Federico

Intervista della BBC 4 con Federico e altri ex ostaggi in Siria
Trascrizione in italiano dell'intervista
La nostra corrispondente Lyse Doucet ha già parlato con persone le cui vite sono state drammaticamente segnate dal conflitto in Siria; ora torna sull’argomento ascoltando i racconti shoccanti di quattro uomini, tutti catturati dal sedicente Stato Islamico (IS) e tenuti in ostaggio in Siria.

Lyse Doucet: In molti conflitti del nostro tempo, la presa di ostaggi rappresenta l’arma preferita per estorcere denaro, esercitare pressione e potere. E’ uno strumento di terrore. Per coloro che subiscono questa sorte, si tratta di un’esperienza traumatica. Durante la devastante guerra siriana, ricorrono alla presa di ostaggi dei gruppi estremisti, tra cui il sedicente IS; centinaia di siriani sono stati rapiti e giustiziati in modo brutale. Giornalisti e cooperanti occidentali sono stati crudelmente decapitati, e la loro esecuzione abilmente filmata e postata sui social media, tribuna pubblicitaria grottesca. Alcuni ostaggi sono ancora tenuti prigionieri, altri ora sono liberi, e tra di loro 4 uomini che oggi sono insieme per la prima volta dal loro rilascio, avvenuti in momenti diversi del 2014. Hanno tutti trascorso un anno circa in prigionia; alcuni di loro non hanno ancora mai parlato in pubblico della loro esperienza traumatica.

Il cooperante italiano Federico Motka, il giornalista francese Didier François, il fotografo danese free-lance Daniel Rye e il blogger francese Pierre Torres: benvenuti. Bentornati.

Torniamo indietro a come tutto è cominciato. Didier, sei corrispondente di guerra da trent’anni. Perché sei voluto andare proprio in Siria in quel momento particolare?

Didier: Mi hanno catturato il 6 giugno, due giorni dopo che le autorità francesi avevano dichiarato pubblicamente di essere in possesso di prove riguardo all’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad contro la sua stessa popolazione. Conoscevamo il pericolo, la situazione era davvero grave. Dopo tre anni di guerra la tensione era altissima e c’era il rischio di essere catturati.

Lyse: Un forte rischio, più alto di quanto tu allora abbia potuto valutare.

Didier: Sì, alto. Beh, ho fatto un errore.

Lyse: Daniel, tu perché al tempo hai scelto di andare in Siria?

Daniel: Sono un fotografo danese, e anche un ex ginnasta professionista, e ho scelto di andare in Siria per stare con una famiglia siriana e cercare di partecipare alla sua decisione di lasciare la propria casa, quello che amava, per l’Europa o per un altro posto in cui sentirsi al sicuro.

Lyse: Sapevi che era pericoloso farlo?

Daniel: Sì, lo sapevo, sapevo che era rischioso, ma non andavo alla ricerca della prima linea, cercavo una famiglia tranquilla, nella campagna.

Lyse: Pierre Torres, tu di cosa eri alla ricerca?

Pierre: Io ero interessato alla città di Raqqa.

Lyse: Raqqa che ora è la capitale dell’IS.

Pierre: Sì, all’epoca era la prima capitale del Governatorato, libera dal regime di Assad, perciò per me rappresentava una prima opportunità di vedere quale poteva essere la Siria del futuro.

Lyse: Federico, noi ci siamo incontrati in Afghanistan: tu sei abituato alle zone a rischio. Cosa provavi all’epoca?

Federico: Ho cominciato a lavorare alla crisi siriana alla fine del 2012. Sapevamo che si trattava di un conflitto pericoloso, ma bisognava andarci, in modo che i finanziatori e gli organismi potessero fare le scelte giuste. Quello era il mio lavoro.

Lyse: E’ sempre in queste situazioni che si spera che tutto vada bene e a volte ci si prepara al peggio. Daniel, tu hai lasciato un numero di telefono sul tavolo da pranzo dei tuoi genitori…

Daniel: Sì, io ho incaricato una società di sicurezza privata di occuparsi di quello che poteva succedere, perché sapevo che il governo danese non se ne sarebbe occupato. Mia madre fa la parrucchiera e mio padre faceva il camionista.

Lyse: Hai cercato di essere un bravo figlio, gli hai detto: vi manderò tre sms al giorno…

Daniel: Sì, per mandare un segnale. Se i miei genitori non avessero ricevuto uno degli sms, avrebbero capito che qualcosa non andava. In realtà stavo quasi per tornare quando mi hanno preso.

Lyse: Didier, il giorno in cui è successo: cosa ricordi della cattura?

Didier: E’ successo tutto in fretta. Ho passato il confine la mattina verso le 10.30 e alle 11 mi avevano già preso. Appena passati dalla Turchia alla Siria, è scattata la trappola. Avevamo una macchina dietro e una davanti, e sono scesi 5 tizi, professionisti: ci hanno tolto gli occhiali, ci hanno levato le scarpe in modo che non potessimo fuggire, ci hanno bendato. Non c’era modo di scappare. Funziona così.

Lyse: Daniel?

Daniel: Siamo entrati per parlare ad un gruppo…

Lyse: Col tuo autista e siriani locali?

Daniel: Sì, avevamo organizzato un meeting. Prendevamo il tè e parlavamo, quando improvvisamente mi hanno chiesto di alzarmi e mi hanno portato nel seminterrato. Il tutto in tranquillità.

Lyse: Pierre?

Pierre: Quella mattina andavo in giro per la città, ero a due minuti dalla casa del mio amico quando si è fermata una macchina; dentro c’erano 4-5 persone che indossavano passamontagna. A Raqqa questo era abbastanza normale, non era così spaventoso vedere gente in una macchina indossare un passamontagna in pieno pomeriggio. Ho pensato ‘forse vogliono sapere l’ora’, ma poi ho visto le canne delle pistole che avevano in mano e allora ho pensato che fossero persone del regime. A quel tempo il regime metteva paura. Hanno cominciato ad afferrarmi e allora ho iniziato a difendermi. A quel punto mi è venuta un sacco di energia e hanno cominciato a colpirmi dappertutto con le pistole e le canne delle pistole. Ad un certo punto ho iniziato a crollare e ho scoperto che il tetto della macchina era coperto di sangue che usciva dalla mia testa. Mi hanno messo giù e abbiamo attraversato la città. Ci sono due ponti a Raqqa, uno molto antico, il ponte dei Francesi, dove c’è un checkpoint di Jabhat Al-Nusra, e siccome abbiamo attraversato il ponte ho capito che si trattava di gente di Jabhat Al-Nusra.

Lyse: un gruppo di Al-Qaida in Siria…

Pierre: E quel gruppo è diventato Stato Islamico.

Lyse: Federico?

Federico: Ero in macchina con David Haines..

Lyse: il cooperante britannico…

Federico: Sì. Avevamo passato la giornata a parlare con dei gruppi locali. Eravamo andati all’Atma Camp, proprio al confine, siamo stati lì seduti per circa mezz’ora, e verso le 5 meno un quarto  siamo tornati alla macchina per rientrare nella nostra casa sicura. Ero al telefono con il mio capo in quel momento e non mi sono accorto di niente finché improvvisamente da due macchine scure, una davanti e una dietro, non sono saltati fuori più o meno 8 combattenti, urlando. Ho lasciato cadere sul sedile il telefono che era ancora acceso, con il capo che era ancora in linea. Ci hanno messo nel bagagliaio, hanno cercato di chiuderlo ma non si chiudeva bene perciò ci hanno fatto  uscire di nuovo. In quel momento passava un uomo in bicicletta che aveva uno sguardo sul viso che diceva: ‘oh, merda!’.

Lyse: Niente ti aveva preparato a questo….

Federico: No.

Lyse: Dopo i primi momenti che è successo? Le prime 24 ore: primi pensieri, paure… Daniel.

Daniel: Tutto è cominciato in modo tranquillo. Praticamente mi hanno solo portato nel seminterrato. Ho incontrato un tipo molto interessante, e ad un certo punto mi ha detto: “Daniel, come mai hai le spalle così larghe? Sembri uno dell’esercito o qualcosa di simile”. E io gli ho detto: “No, non lo sono, sono un ex ginnasta professionista, ecco perché sono così”. E lui ha detto: “Sì, alcuni degli altri pensano che tu sia una spia”. Quello è stato il momento in cui per la prima volta ho avuto davvero paura. Ho cercato di dimostrargli che non ero una spia ma che ero davvero un ginnasta, e ho fatto una spaccata lì, sul materasso. E il tipo mi ha detto: “smettila! Io dovrei interrogarti, dovrei torturarti”. E allora sono scesi altri tipi che hanno cominciato ad urlarmi contro, a strillare, a prendermi a pugni. In realtà non proprio picchiandomi ma urlando, cercavano di terrorizzarmi.

Didier: Venivano regolarmente per picchiarti senza un motivo, per dare una dimostrazione di potere. Mi mettevano dello spray al pepe sulla benda e non mi davano da mangiare e da bere per giorni.

Pierre: Ho cominciato a realizzare quello che stava succedendo. Ero in una prigione nel deserto, e c’erano anche altri prigionieri. Ad un certo punto ho sentito che ne stavano uccidendo qualcuno: li portavano direttamente fuori, senza via di scampo. Ho cominciato ad andare fuori di testa: essere ucciso nell’ombra, scomparendo, è molto peggio che farsi sparare. Nessun parente o amico ne avrebbe mai saputo niente; dopo dieci anni si sarebbero detti: “ok, immagino che Pierre non ci sia più”,  ma senza saperne niente, è terribile.

Federico: Si pensa alla famiglia. Si sparisce. Un tipo, in una specie di inglese, ha detto: “Tu non crei problemi, io non creo problemi”. Il giorno dopo io e David (Haines) siamo stati separati e ha avuto inizio questa specie di avanti e indietro con domande del tipo: “Perché siete qui? Cosa ci fate? Siete spie?”. Sempre la stessa sequenza. David mi aveva dato tre consigli, che non dimenticherò mai. Il primo: “Dì sempre la verità”. Il secondo: “Se ci separano, creati una routine”, e il terzo: “Stai al gioco”. Forse un paio d’ore dopo mi hanno portato fuori, mi hanno messo nel bagagliaio di una macchina e mi hanno portato in un altro posto, una specie di cella completamente buia, forse di un metro per tre, con un gabinetto. Per circa tre settimane, niente. Giorni e giorni di solitudine. C’era un tizio che mi dava un piatto di baked beans la mattina e pane e olive la sera. E acqua. Andavo su e giù  dal materasso, andavo avanti e indietro per 300 volte, e facevo cose del tipo parlare con i miei genitori e mia sorella nella mia testa e poi cercavo di dormire di nuovo. Qualsiasi cosa per far passare le giornate.

Daniel:  E’ interessante la modalità sopravvivenza in cui si entra quando si sta da soli. Io ho cominciato a contare: sei lì, con il tuo cervello, con te stesso. Potevo stare bene quando pensavo che fosse tutto ok, ma potevo anche stare male.

Lyse: Oggi indossi dei begli occhiali rotondi. Ma a te erano stati tolti gli occhiali sin dall’inizio. Riuscivi a vedere?

Daniel: No. Mi mancano tre diottrie in entrambi gli occhi il che significa vedere sfocato. E’ stato bello quando più tardi ci hanno messo insieme e non riuscivo a vedere le facce degli altri ragazzi: mi sono divertito. Dovevo avvicinarmi a loro per vederne le facce, le espressioni e avere una conversazione.

Didier: Se vuoi sopravvivere devi giocare. Devi sopravvivere un giorno, sopravvivi un giorno. Quello seguente si vedrà: piano piano, funziona così.

Daniel:  Non mi piace quello che si vede nei film, lo sconvolgimento. Per me non è stato così. All’inizio c’è stato lo choc, la seconda parte è consistita nell’accettazione e l’adattamento, e la terza è stata pensare che quella era la mia vita di tutti i giorni. Questo è il momento in cui si diventa un buon ostaggio. L’ultimo passo è quando ci si rende conto che forse si sta per tornare a casa.

Lyse: Quanto ti ci è voluto per arrivare al terzo livello, l’accettazione del fatto che quella sarebbe stata la tua vita per un periodo di tempo indefinito?

Daniel: E’ successo quando siamo entrati in una cella dove avevano predisposto un gabinetto solo per noi. Lì ho capito che non si trattava del giorno dopo. Si erano impegnati.

Lyse: Parliamo di un periodo di prigionia di 10 mesi per qualcuno di voi, 12 per qualcun altro. Momenti più leggeri, momenti bui…. Le condizioni cambiavano a seconda di chi vi deteneva, a seconda di chi erano, per usare le vostre parole, le guardie?

Didier: Dovete capire. Tutte loro avevano un obiettivo: tenerci in pugno. Non c’erano guardie buone e guardie cattive: erano tutte cattive. La strategia per controllarci come gruppo era diversa. Quelle francesi tendevano di più a fare giochetti mentali, quelle britanniche erano più per l’approccio diretto, controllo e violenza.

Daniel: Una sensazione che ho avuto è che molti dei combattenti stranieri europei o occidentali che venivano, tendevano ad essere un po’più aggressivi nei nostri confronti. Mi ricordo che ad un certo punto sono entrati, mi hanno fatto alzare e mi hanno fatto ballare una specie di tango. Questo è stato molto strano perché è qualcosa che ti fa sentire davvero umiliato.

Lyse: In Gran Bretagna qualcuno che è diventato famoso e che viene chiamato Jihadi John è stato purtroppo visto nelle immagini delle esecuzioni. Lo hai mai incontrato?

Didier: I britannici non entravano in contatto fisico con noi se non per picchiarci violentemente, perché erano bravi nella violenza e amavano farlo, specialmente quel tipo soprannominato Jihadi John. E’ strano, comunque, cercavano di spezzarci in vari modi.

Pierre: Io avevo un enorme complesso di colpa ad un certo punto, mi sembrava di aver accettato tutto questo con troppa facilità. Una volta ho preso di mira una guardia giovane, penso che fosse tunisina, e ho cominciato a guardarla standole davanti, come per dirle con lo sguardo: “Sei un pezzo di merda”.

Lyse: Lo hai detto o lo hai pensato?

Pierre: L’ho pensato. E ho continuato per due-tre settimane. A un certo punto voleva prendermi a pugni, è venuto con un bastone cercando di farmi stare a terra ma io mi sono alzato. Due minuti dopo è tornato nella cella ed era furioso, fuori controllo: mi ha portato fuori dalla cella e mi ha massacrato con il bastone e poi mi ha riportato dentro. Stavo malissimo ma mi sentivo euforico, era come se avessi preso della cocaina o qualcosa di simile. Mi sentivo un grande, avevo davvero apprezzato quel momento, mi era davvero piaciuto.

Lyse: Perciò ti sei alzato, e anche se ti ha massacrato ne era valsa la pena.

Pierre: Sì.

Didier: Non è che ci fossero delle vere e proprie regole. A volte lo stesso tipo veniva a darti una caramella, e dopo 5 minuti o un’ora tornava nella stanza e te le suonava, e tu non sapevi perché. E lo fanno apposta. Non ci sono regole, si è fuori dalla legalità. L’unica cosa che puoi mantenere per te, è la tua dignità.

Lyse: Allora, Pierre si è alzato davanti a loro ed è rimasto in piedi e anche Daniel. Tu cosa facevi per conservare la tua dignità?

Federico: L’unica possibilità per conservare la dignità in quel senso, era cercare di mantenersi puliti il più possibile. Ma la routine prevedeva mani ammanettate dietro la schiena di notte e davanti al corpo di giorno. Ogni tanto ci levavano le manette per farci togliere le magliette e sciacquarci ad esempio le ascelle con un po’ d’acqua. Eravamo come degli animali a quel punto.

Lyse: Ho sentito che dovevate occuparvi voi dei vostri escrementi.

Federico: Tutti noi abbiamo avuto un periodo in cui abbiamo sofferto di diarrea, in particolare quando ci hanno messo insieme per la prima volta ne abbiamo sofferto in modo acuto. C’era sempre una specie di contenitore; eravamo a un livello interrato, ma c’era sempre un’apertura in alto sul muro, anche piccola, e noi lo spingevamo fuori dalla finestra sperando che si asciugasse. Ma era tutto liquido, quindi difficile.

Daniel: Escrementi addosso, escrementi nell’angolo della stanza.. Le guardie entravano e ti odiavano, ti guardavano come se fossimo maiali che si rotolavano nella propria sporcizia. Allora siamo diventati intransigenti, abbiamo detto: “Ehi, ci serve un secchio”.

Lyse: E i vestiti? Vestiti, biancheria…

Pierre: Federico ha biancheria davvero carina…

Lyse: Biancheria italiana?

Federico: Boxer… Ho indossato gli stessi vestiti che avevo il pomeriggio in cui siamo stati catturati fino a luglio, in realtà anche oltre. Approfittavo ogni volta che andavo alla toilette per sciacquarli, era la mia ossessione.

Lyse: Cos’è successo quelle settimane in cui vi hanno trattato in modo così brutale, vi hanno torturato.. Cos’è successo? Vi interrogavano? Perché lo facevano?

Federico: Sì, mi interrogavano, ma non è che facessero proprio delle domande. Forse ero solo diventato parte di un centro di tortura ben funzionante.

Pierre: Le porte erano di metallo ma c’erano delle specie di piccola apertura vicino al pavimento per far circolare l’aria. Attraverso di essa si vedeva quello che succedeva nel corridoio, dove c’erano uno dei posti dove torturavano. Si sentiva gridare, invocare il proprio Dio, pregare per la propria vita. Non c’erano dubbi su quello che stessero facendo: non ho mai pensato che fosse un villaggio vacanze.

Daniel: Quando ho pensato che non sarei sopravvissuto, a quel punto ho cercato di scappare e in realtà ho provato a impiccarmi; sono stato salvato dai cattivi. Sono entrati e mi hanno tirato giù, dicendomi che andava tutto bene, e ho sentito che non mi avrebbero ucciso. Il punto è che però questo è successo e improvvisamente sono arrivato in una nuova cella dove la situazione era del tutto diversa. Questo mi eccitava. Per quanto mi ricordo, mi sono addormentato e mi sono svegliato quando qualcuno mi ha sussurrato: ehi, chi sei? Ho guardato in su e ho visto che era Didier. Ho cominciato a raccontare tutta la mia storia.

Lyse: Il tuo punto di vista di quando hai visto Daniel?

Didier: Era molto debole, malato, forse aveva una grave infezione perché si vedevano le ossa delle sue caviglie ma noi non avevamo niente per curarlo o per cercare di pulirlo. Eravamo davvero preoccupati per lui.

Lyse: Avete pensato che stare tutti insieme avrebbe creato una dinamica diversa, rapporti diversi? Perché siete tutti persone diverse tra voi. Pierre, com’era con Daniel, con Federico?

Pierre: Erano i miei primi amici, perché da un lato della stanza c’era Didier! Erano due ragazzi giovani, rilassati…

Daniel: Deve capire che vivere con qualcuno come Didier è terribile!! 

Pierre: Un giorno ci si accorge che l’unico con cui si può parlare di un certo argomento, fare un certo scherzo, è lui. Avevamo tutti un posto speciale e un rapporto speciale tra noi.

Lyse: Ho letto che avevate un posto che chiamavate “la segreta”, e stavate lì insieme e vi davate lezione.

Pierre: Organizzavamo lezioni, sport e giochi. Queste sono le tre cose di base.

Lyse: Daniel, ho letto che tu hai tenuto una lezione su come tuffarsi da molto in alto in una vasca piccola.

Daniel: Tanto tempo fa ho imparato come arrampicarsi per 25 metri e tuffarsi in una vasca piccola. E’ difficile, ma interessante.

Lyse: L’avete trovata interessante quella lezione?

Pierre: Il punto è che cercavamo solo di evadere.

Lyse: Tu hai fatto una lezione su come fare il ferro?

Pierre: Sì. Penso che sia stata persino più noiosa di quella sui tuffi.

Federico: Usavamo le coperte per formare una barca per terra e io cercavo di spiegare con la mia scarsa conoscenza della fisica come funzionino le vele per fare andare le barche più veloci.

Daniel: Ricordo che il mio cervello aveva sete, andava alla ricerca di qualsiasi informazione, a prescindere di cosa si trattasse, finché qualcuno parlava di qualcosa che proveniva dal mondo reale.

Lyse:  C’era un altro ostaggio britannico, Alan Henning, un tassista diventato volontario per aiutare i siriani.

Federico: Ha fatto una lezione sulla pesca alle carpe…

Daniel: Alan era un omone con un grande cuore. Era un uomo stupendo. In un posto come quello era importante muoversi perché altrimenti il corpo ne risentiva, si cominciava a svenire: allora ha iniziato come routine a tenersi in esercizio. Non vedeva l’ora di tornare a casa e in un certo senso ha cambiato il suo stile di vita. Una volta eravamo seduti in una stanza, e non avevamo di che stare allegri: ma vedere una persona che faceva qualcosa per se stessa e parlava dei propri sogni, per me significava qualcosa di forte.

Lyse: Ed eravate in una mentalità di gioco… Ho qualcosa qui in studio che stavo guardando. E’ un tessuto.

Didier: Questo pezzo di stoffa in realtà è una sciarpa di cotone in cui io ho nascosto dei pezzi degli scacchi, fabbricati con le scatole del formaggio “La Mucca che Ride”. Rubavamo tutto. Li nascondevamo. E’ un bel ricordo perché giocavamo parecchio a scacchi.

Federico: E’ qualcosa che tutti noi abbiamo fatto, in un determinato momento. C’era un altro gioco che facevamo e che era forte; giocavamo a delle varianti del gioco Werewolf, noto anche come Mafia. Chiunque raccontasse inventava la trama e distribuiva i personaggi e le persone dovevano comportarsi in quel modo. Ad un certo punto avevamo prime donne, e ad un certo punto anche prostitute.  

Didier: C’era sempre un cuoco. Eravamo ossessionati dal cibo, entrava sempre in qualsiasi discussione. Ogni sera cercavamo di immaginare un menu con il “non dessert” del giorno. Perciò era un “non menu” con il “non dessert” del giorno. Qualunque cosa potevamo aspettarci non la avremmo avuta.

Lyse: Sarete stati delusi quando avete capito che alcuni di voi sarebbero usciti ed altri no, a causa della nazionalità.

Didier: Quello è stato più difficile. Tutti speravamo di andarcene, altrimenti non si sopravvive. C’è stata una discussione sulle strategie dei nostri vari governi e su come potevano agire. Una cosa difficile da fare, perché alcune delle richieste non sarebbero mai state accolte, in quanto rappresentano un limite per la diplomazia e per il prezzo politico che hanno. So che i giornalistici si concentrano sul riscatto: noi non siamo stati rilasciati in quanto francesi in cambio di soldi, davvero. Non è questo il punto. Abbiamo uno Stato Islamico che aveva iniziato ad esistere, derivante da una scissione da Al-Qaida: la differenza principale è che loro si vedono come uno stato e vogliono che si negozi con loro come con uno stato, uno stato organizzato. Era una cosa politica.

Lyse: Ti ricordi del momento in cui hai pensato “Verrò rilasciato” e le cose hanno cominciato a cambiare?

Federico: Sì. Sapevo che c’era uno schema e avevano chiesto una prova di esistenza in vita.

Lyse: Dovevi fornire un’informazione di cui fosse a conoscenza solo la tua famiglia. Che cosa ti hanno chiesto?

Federico: Di che colore era la parete della stanza da letto a casa di mia madre. Era arancione. E’ stato probabilmente uno dei momenti più dolceamari della mia vita, perché fino ad allora avevo voluto credere che io e David saremmo stati liberati insieme. E credo che quello sia stato il momento in cui ho realizzato che non sarebbe successo. Ho pianto come un bambino. David era vicino a me, mi ha abbracciato ed è stato gentile, ha detto: “Approfitta dell’occasione”. A quel punto si era reso conto che le cose non si presentavano bene. La mia prova di esistenza in vita significava per lui perdere una parte di speranza.

Lyse: Qualche mese dopo è diventato uno degli 8 cooperanti che sono comparsi nella loro propaganda crudele, decapitati in un video che è stato poi messo online. Padre di due figli.      

Daniel: Mi ricordo sempre di quando stavamo seduti dentro insieme e condividevamo lo stesso sogno di passare la frontiera insieme. Dovunque fossimo arrivati saremmo andati in un albergo e ci sarebbe stato un buffet. Parlavamo a lungo di quel buffet, di come ci saremmo seduti intorno al tavolo, in 19, e lo avremmo condiviso.

Lyse: Perché a quel punto eravate in 19 uomini in una stanza e c’erano delle donne in un’altra stanza.

Daniel: Era la sensazione più strana del mondo. Mi ricordo di quando i 4 amici francesi se ne sono andati: è stato molto triste.

Lyse: Sognavate il momento in cui sareste stati rilasciati? E come è stato il reale momento del rilascio?

Daniel: Quando sono stato liberato eravamo rimasti in otto, io, un ragazzo tedesco, tre britannici e tre americani. Ho avuto la mia prova di esistenza in vita, che sapevo mi avrebbe fatto tornare a casa, poi il ragazzo tedesco ha avuto la sua qualche giorno dopo. A quel punto è diventato chiaro che non stavano negoziando per gli americani e i britannici. Mi ricordo che il giorno in cui mi hanno liberato stavo seduto nel mio angolo e  piangevo, di mattina presto, da solo, con una coperta sulla testa per non far vedere agli altri che ero nervoso e frustrato. A quel punto James Foley mi si è avvicinato, mi ha messo un braccio sulla spalla e mi ha detto “Non preoccuparti Daniel, probabilmente tra dieci-quindici minuti entreranno, ti prenderanno e sarai sulla strada verso casa. Sii felice, ti sei guadagnato la tua libertà”. Quel giorno avrebbe dovuto essere un giorno felice, passare il confine, riacquistare la libertà, tornare dalla famiglia, ma una parte di me restava in Siria, come pensando che sarebbe finita solo quando tutti noi ci fossimo potuti sedere intorno a quel tavolo a mangiare il nostro buffet.

Lyse: Didier, il tuo rilascio naturalmente è stato su tutti i media. Eri sulla pista di atterraggio, hai incontrato parenti e amici che erano venuti ad accoglierti; parlavi del cielo, della libertà. Cosa provavi, ti sentivi sopraffatto?

Didier: Per i nostri cari e le nostre famiglie è una grande cosa, perché sono loro quelli che ne pagano davvero il prezzo. Non si può lasciare una vita normale quando le persone che si amano non avranno più notizie di noi.

Lyse: Come è stato il tuo primo pasto dopo la libertà?

Didier: Il primo pasto me lo hanno dato i francesi dell’intelligence che erano sull’aereo militare, hanno aperto scatole di cassoulet e birra: è stato grande!

Lyse: Non è mai stato così buono…! Pierre, il tuo primo momento di libertà? La prima cosa di cui sei stato grato una volta uscito.

Pierre: Se non ti dispiace non ne voglio parlare.

Lyse: Per quali cose sei stato grato tu, Daniel, quando sei uscito?

Daniel: Le pochissime ore in cui siamo stati in un albergo della Turchia meridionale. Una delle principali domande che mi sono posto durante quei 10 mesi di prigionia riguardava l’uomo nella cui casa eravamo, si chiamava Abdel Ahmid Khatib. Ero più o meno sicuro che gli avessero sparato per strada oppure che lo avessero torturato a morte, o qualcosa del genere. Conoscevo tutta la famiglia, e sono stati veramente tutti fantastici. Una volta ritrovatomi con loro, è stato semplice condividere. Anche molti degli attivisti erano stati catturati dallo Stato Islamico, e la maggior parte di loro era stata uccisa a Raqqa, quindi per loro vederci andare via era un miracolo, era quasi incredibile.

Federico: Non riuscivo davvero a credere che le persone avessero fatto questo per me, pensavo che sarei stato solo una pratica su una scrivania, ad essere sincero. C’erano tante persone dietro, che ci sostenevano, non lo avrei mai creduto. E poi naturalmente, il fatto di rivedere la mia famiglia.

Lyse: Nel momento in cui siete stati più numerosi eravate 19, 19 ostaggi. Alcuni sono stati giustiziati, ma degli altri uno solo è rimasto, il giornalista britannico, John Cantlie.

Daniel: E’ dura, è ovvio che pensiamo a lui continuamente. Io spero, e tutti noi qui lo speriamo, che riesca a farcela.

Lyse: Siete tornati tutte alle vostre vite, ma non saranno più le stesse.

Pierre: La mia è identica.

Lyse: Sei tornato a fare il giornalista e sei appena tornato dall’Iraq come corrispondente di guerra.

Federico: A un certo mi sono accorto che i miei calcoli e la mia testa erano cambiati dopo questo. Quando ne sono uscito mi sono chiesto: ne è valsa la pena? Non ne sono più sicuro. Se il risultato fosse stata la mia morte, non so se sarebbe servito a cambiare qualcosa, non so se le mie azioni hanno fatto la differenza. Adesso quindi sto cercando di fare la stessa cosa in un modo diverso perché non posso tornare indietro alla stessa vita che avevo prima. Sto cercando di impostare un modo con il quale le persone possano essere di supporto: organizzazioni, comunità, in tutto il mondo. Spero di riuscire a far sì che la gente possa fare la differenza a modo proprio, e se saremo di più, forse potremo fare la differenza e la nostra potrà essere una causa vincente.

Lyse: Tu stai scrivendo un libro, Daniel.

Daniel: Quando sono tornato mi sono reso conto che la mia famiglia aveva dovuto raccogliere i soldi da sola, e quindi per metterla in grado di passare oltre, per far conoscere la mia storia anche agli amici in Danimarca, ho pensato che fosse una buona idea raccontarla. Comunque, sono solo molto contento di essere ancora vivo e di non aver subito un trauma maggiore.

Pierre: Penso che tutti noi siamo ancora strettamente legati. E’ ovvio che non possiamo dimenticare quello che abbiamo passato. Quando ci incontriamo condividiamo cose che non possiamo condividere con nessun altro. E’ importante.

Lyse: Un mio amico della BBC, che è stato anche lui preso in ostaggio, Alan Johnston, ha detto: “Non voglio essere sempre conosciuto come un ex ostaggio”. E’ lo stesso per voi?

Daniel: E’ qualcosa che ho dovuto affrontare spesso. Penso che la storia possa essere importante per le persone, ma quello che odio davvero è quando la gente ti chiede come ti hanno torturato. Lo trovo privo di qualsiasi interesse, ma è qualcosa di cui ti parlano tutti. Non vedo l’ora di essere in grado di poter guardare a tutto questo lasciandomelo alle spalle. Abbiamo ancora del lavoro da fare prima di arrivare a questo punto. E spero che John torni a casa.